Recettore della Vitamina D (VDR): e se per caso fosse “colpa” sua?

2 Apr 2020

La vitamina D è costituita da un gruppo di steroli liposolubili necessari per molte funzioni biologiche e per l’assorbimento intestinale di minerali come il calcio, magnesio e il fosforo.

La vitamina D è costituita da un gruppo di steroli liposolubili necessari per molte funzioni biologiche e per l’assorbimento intestinale di minerali come il calcio, magnesio e il fosforo.

Nell’uomo, i composti più importanti di questo gruppo sono la vitamina D3 (conosciuta anche come colecalciferolo) e la vitamina D2 (nota come ergocalciferolo) – che tuttavia dovranno essere mutati in calcitriolo (forma ormonale attiva).

La principale sorgente naturale di vitamina D è costituita dalla produzione endogena del colecalciferolo (vit D3) a livello della pelle, partendo dal colesterolo, attraverso una reazione chimica che dipende dall’esposizione alla luce solare (in particolare dall’irradiazione UVB).

Tuttavia, il colecalciferolo e l’ergocalciferolo possono essere anche assunti con la dieta e gli integratori, ma solo pochi alimenti possono essere considerati buone fonti di vitamina D (soprattutto pesce, fegato e tuorlo d’uovo; secondariamente, anche certi funghi).

Le raccomandazioni dietetiche per la vitamina D hanno un ampio margine di sicurezza e, generalmente, non tengono in considerazione l’entità dell’esposizione solare, basandosi totalmente sulla assunzione nutrizionale.

Questo perché, in virtù della variabilità legata alle diverse latitudini (si vedano ore di luce e di buio nei paesi nordici), la captazione dei raggi UVB nella popolazione risulta piuttosto variabile; per di più, non dimentichiamo che un’esposizione eccessiva al sole può aumentare il rischio di cancro della pelle.

Sia la vitamina D introdotta con gli alimenti, sia quella prodotta nella pelle, sono biologicamente non attive e richiedono necessariamente l’intervento di un enzima proteico capace di idrossilarle convertendole nella forma biologicamente attiva.

Ciò avviene nel fegato e nei reni.

Poiché la vitamina D può essere sintetizzata in quantità adeguate dalla maggior parte dei mammiferi sufficientemente esposti alla luce solare, non andrebbe considerata un fattore dietetico essenziale – quindi non dovrebbe nemmeno essere considerata una vitamina.

Ha piuttosto le caratteristiche di un pro-ormone, attivabile nell’ormone calcitriolo, che produce i suoi effetti interagendo con un recettore nucleare situato in più cellule di tessuti differenti.

Gli effetti della Vitamina D sono mediati dal suo recettore nucleare (VDR), che forma un complesso eterodimerico con il recettore dell’acido retinoico ed interagisce con i fattori di trascrizione.

VDR (12q12-14) codifica per una proteina di 427 aminoacidi (aa), che regola il trasporto e l’omeostasi del calcio ed è stato proposto come il locus a maggior effetto genetico sulla densità ossea (BMD) negli studi di associazione.

Sono presenti diversi siti polimorfici nella regione 3’ del gene umano VDR identificati dalle endonucleasi di restrizione TaqI e BsmI, ed un’altra variante polimorfica, riconosciuta da FokI, a livello del presunto codone di inizio della trascrizione nell’esone 2.

Gli alleli vengono rispettivamente chiamati T-t, B-b e F-f: le lettere minuscole identificano la presenza del sito di restrizione e le lettere maiuscole indicano l’assenza di tale sito. Tali polimorfismi possono condizionare la risposta a vari componenti dietetici con possibili rischi di sviluppo di patologia.

È ormai ampiamente dimostrato un coinvolgimento funzionale degli alleli del VDR nell’omeostasi del calcio e nella mineralizzazione dell’osso.

Gli studi iniziali hanno consentito di riscontrare l’interazione tra il gene del VDR, l’assorbimento di calcio e i livelli di calcio nella dieta. Le variazioni alleliche del gene VDR spiegano per il 70% gli effetti genetici sulla densità ossea.

In letteratura sono noti alcuni lavori che correlano l’associazione del polimorfismo VDR Fok1 con il genotipo FF, con il rischio di sviluppo del carcinoma del colon, in rapporto all’apporto di calcio e grasso nell’alimentazione.

Diverse altre patologie sono state correlate alla associazione con i suddetti polimorfismi nel gene VDR, tali da poter influenzare l’espressione o la funzione della proteina. In particolare, tali polimorfismi (Fok1, BsmI, e TaqI), possono condizionare la risposta a vari componenti dietetici con possibili rischi di sviluppo di patologia.

In particolare, è stato evidenziato come, sebbene il calcio o il grasso alimentari non correlano normalmente con il rischio di sviluppo di carcinoma del colon nei soggetti con genotipo FF, in quelli con genotipo a combinazione allelica multipla ff/Ff, un diminuito apporto del calcio o del grasso nell’alimentazione aumenterebbe tale rischio. Per individui con genotipo ff e dieta povera di grasso e calcio, il rischio di sviluppo del carcinoma del colon era di circa 2.5 volte maggiore rispetto agli altri.

C’è una relazione fra vitamina D e microbiota intestinale?

La composizione del microbioma intestinale varia a seconda del livello di assunzione di vitamina D e della concentrazione della sua forma biologicamente attiva, la 25-idrossi vitamina D (25(OH)D).

A dimostrarlo sono i ricercatori dell’Università di San Paolo, in Brasile, che hanno condotto uno studio su 150 individui sani, suddivisi in 3 gruppi in base ai livelli di vitamina D e di 25(OH)D.

Dei partecipanti allo studio sono stati analizzati anche il profilo infiammatorio e la composizione del microbioma intestinale, visto il ruolo giocato da questa vitamina nel modulare il sistema immunitario proprio a livello enterico.

Secondo alcuni studi, una sua carenza sarebbe in grado di deteriorare la parte intestinale, favorendo la traslocazione di endotossine nel torrente circolatorio e lo sviluppo di uno stato infiammatorio sistemico.

Inoltre, è stato ipotizzato che la relazione fra la vitamina D e alcune patologie metaboliche possa essere mediato dalla composizione della popolazione batterica intestinale.

I ricercatori brasiliani hanno quindi deciso di verificare se l’ipotetico legame fra i livelli di questa vitamina e il microbioma dipenda da uno stato infiammatorio di basso grado.
Dai dati, pubblicati sulla rivista Metabolism, risulta che la concentrazione di lipopolisaccaride (LPS) aumenta in concomitanza con la riduzione di 25(OH)D.

L’analisi di campioni di feci ha poi dimostrato che il gruppo di soggetti con maggiori livelli di vitamina D è caratterizzato dall’abbondanza di alcuni ceppi batterici, come per esempio Prevotella, e dalla scarsità di altri, tra cui i gram-negativi Haemophilus e Veillonella.

I ricercatori hanno rilevato anche un’associazione inversa fra i livelli di 25(OH)D e la concentrazione di due proteine coinvolte nel processo di infiammazione (E-selectina e proteina c-reattiva), risultato che suggerisce un’azione antinfiammatoria della vitamina D anche in soggetti sani.

Basandosi sui dati ottenuti, i ricercatori hanno quindi concluso che la capacità della vitamina D di modulare l’attività del sistema immunitario a livello intestinale può influenzare la composizione del microbioma.

È quindi più che necessario approfondire in tutte le sedi possibili il rapporto Vitamina D3 – Polimorfismo VDR – Microbiota intestinale, per poter fornire risposte puntuali ed efficaci con un intervento mirato su tutte le patologie autoimmuni, ad iniziare da quelle infiammatorie del colon.


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